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1999 - Apparizione della Vergine a San Nicola di Bari e San Bruno

UN'OPERA CERTOSINA DI BERNARDINO POCCETTI

Gli Amici degli Uffizi hanno reso possibile l'acquisizione da parte della Galleria di una pala d'altare attribuita al Poccetti. Un'opera di rilievo per la storia del patrimonio artistico della Certosa, come pure per il profilo di un artista che ebbe un ruolo centrale nella riforma figurativa toscana della fine del Cinquecento.

In un alone di luce divina la Vergine e il Bambino sono circondati da sei angeli festanti in perfetta simmetria. Più sotto, in uno spazio contiguo ma di pertinenza terrena, San Nicola di Bari e San Bruno introducono all'apparizione che ha per sfondo un paesaggio urbano facilmente identificabile con Firenze. Al vertice della piramide ideale alla cui base stanno i due Santi, l'austera Vergine veste di blu e rosa, con la preziosa concessione di un velo a righe gialle dalla foggia vagamente orientale. Presentata nelle sue funzioni materne, essa trattiene al petto lo scalpitante Bambino che accenna quasi distrattamente ad una benedizione. La figura inginocchiata di San Nicola reca i suoi indispensabili attributi: un piviale damascato con bordure dorate, foderato di seta rosa e serrato al petto da un elegante fermaglio; una mitra con perle, smeraldi e rubini incastonati; il pastorale e le tre palle d'oro posate sul libro. Fa da contraltare l'umile San Bruno con indosso il saio certosino e lo scapolare bianco legato ai lati. La croce esibita con la sinistra indica la sua consuetudine con la preghiera ed evoca la campagna di evangelizzazione da lui condotta in Francia e nel sud dell'Italia, mentre il pastorale deposto a terra in primissimo piano ricorda il suo rifiuto dell'arcivescovato di Reggio. Non sfugge il carattere didascalico della tela che nella sua semplicità compositiva si richiama alle più rigorose rappresentazioni del primo Cinquecento: in particolare, le ordinate pale di Fra Bartolomeo fungono qui da vero e proprio modello normativo, mentre lo schema della Vergine col Bambino rinnova le tipiche invenzioni di Andrea del Sarto, desumendone anche la raffinata semplicità cromatica. Qualche altro utile confronto giunge da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, che nella Firenze del secondo Cinquecento aveva rilanciato le algide armonie degli inizi del secolo, preparando la strada alle nuove leve degli artisti 'riformati'. Così verso il 1570 egli aveva approntato, per la chiesa fiorentina dei Santi Jacopo e Lorenzo, una Sacra conversazione (oggi nei depositi delle Gallerie) al cui centro si apriva una luminosa finestra prospettica che inquadrava la Certosa del Galluzzo. Pur sostituendo una veduta di Firenze a quella del convento, il nostro autore potè aver presente quel modello quando andò ad affrontare la sua opera, destinata all'ordine certosino come testimoniano i due santi che calcano il primo piano. Oltre a San Bruno infatti, anche San Nicola era particolarmente venerato nel cenobio fiorentino perchè omonimo di quel Niccolò Acciaioli che aveva promosso, nel Trecento, l'arrivo dei certosini in territorio fiorentino; la presenza, fino al Settecento, di una cappella dedicata a quel santo all'interno della Certosa del Galluzzo ne è una conferma. Il dipinto si accompagna poi ad una cornice in pioppo listrata a noce, parzialmente dorata, formata da due lesene scanalate e un elegante timpano spezzato con dentelli, che racchiude entro volute una cartella ovale con incisa e dipinta la data 1595. Negli scudi che ornano i basamenti delle lesene (di cui oggi, a causa di un intervento in età neoclassica rimosso con il recente restauro, è leggibile solo quello di destra) era raffigurato il monogramma certosino, con le lettere -CART- intrecciate e sormontate da una croce. Non solo l'iconografia e gli stemmi indicano una diretta committenza certosina. Anche le severe scelte stilistiche del dipinto rispondono a quel -parlar piano- che, dalla seconda metà del Cinquecento, in pieno clima tridentino, era diventato un vero vessillo registrato sull'ideale di vita cenobitica e contemplativa dell'ordine. In quel particolare momento di revisioni, i monaci licenziarono la Nova Collectio Statutorum con la quale ribadivano la propria tradizionale austerità. Sull'onda di questi fermenti fu operata in Toscana una coerente campagna di rinnovamento che coinvolse almeno tre delle Certose regionali: Firenze (Galluzzo), Siena (Pontignano), Pisa (Calci), dove furono coinvolti artisti della nuova generazione, con una particolare preferenza per Bernardino Poccetti, nel quale i certosini trovarono un attento interprete della loro esigenza di essenzialità consona alla regola. Non sarà difficile riconoscere in lui l'autore della nostra pala. Il primo impiego gli giunse proprio dai monaci del Galluzzo, che gli assegnarono le decorazioni del Sancta Sanctorum della chiesa. Qui tra il 1591 e il 1593 egli affrescò alcuni episodi della vita di San Bruno, adattando all'esattezza -storica- della raffigurazione un tono narrativo chiaro e accostante. Nel Transito di San Bruno ad esempio, dispiegato sull'intera parete terminale della chiesa, si scorge, dietro la magniloquenza della -macchina- celebrativa, una attenzione al quotidiano sia nei gesti dei personaggi che nella loro caratterizzazione ritrattistica. Questa vocazione descrittiva nelle fisionomie è chiaramente presente nel nostro San Bruno, semplice e solenne ad un tempo; le caratteristiche profilature spezzate degli scapolari, rigide e spigolose come lamine di metallo, nelle quali emerge la formazione tutta fiorentina e accademica del Poccetti, votata alla esaltazione del disegno, compaiono identiche nell'affresco come nella pala. Il pittore, che parallelamente condusse le decorazioni delle altre due certose toscane, proseguì la sua collaborazione con i monaci del Galluzzo per almeno un decennio, lavorando dapprima nella cappella delle reliquie (1597) e successivamente in quella di Tobia (1601). In questo secondo ambiente, che ospitava la tomba di Niccolò Acciaioli, il Poccetti affrescò Tobia che seppellisce un morto e Tobia che rimane accecato, proponendo nella figura del protagonista lo stesso tono sentimentale, ed anche la stessa fisionomia, del nostro San Nicola, che in buona parte dipendevano da un sensibile avvicinamento ai morbidi scorci e alle soffici sfumature correggesche introdotte a quel tempo dal Cigoli. Resta da precisare la provenienza della pala e della sua cornice. L'ipotesi più attraente è quella di identificare l'opera con quel dipinto, disperso sino ad oggi, che i certosini avevano commissionato al Poccetti proprio nel 1595 (o 1596 secondo lo stile comune) per la cappella del Castellare presso Cerbaia, uno dei più importanti possessi dell'ordine. La coincidenza della data tra il pagamento e la nostra pala è invitante, e la presenza di San Nicola potrebbe così giustificarsi come un omaggio a Niccolò Acciaioli che, nel Trecento, aveva donato alla Certosa questa fattoria di sua proprietà. Si sa inoltre che nel 1808, in seguito alle soppressioni, il Castellare fu sottratto ai monaci e radicalmente ristrutturato, cancellando quasi ogni traccia della cappella: ciò spiegherebbe lo smantellamento globale dell'altare, il suo restauro nel gusto del tempo e la scialbatura degli stemmi, in conseguenza della sua immissione in un diverso contesto. L'acquisizione della pala agli Uffizi - voluta e sostenuta finanziariamente dall'Associazione Amici degli Uffizi - assomma dunque il duplice merito, prontamente intuito da Antonio Natali, di recuperare un importante tassello del patrimonio artistico della Certosa e, al tempo stesso, di documentare, nel contesto di una ricomposizione del complesso e vario movimento della riforma figurativa toscana di fine Cinquecento, un pittore che vi ebbe un ruolo centrale, il Poccetti, freschista prolifico ma rarissimo su tela.

Claudio Pizzorusso