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2017 Armida
Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo 
(Firenze, 1601 - Innsbruck, 1661)
ARMIDA
olio su tela, cm 127,5x82
 
Più volte commentata nella letteratura su Cecco Bravo, Armida, la celebre maga della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, presenta elementi tipici delle opere più tarde dell’artista che dimostrano una conoscenza diretta della pittura veneta e di Tiziano; infatti è caratterizzata da una pennellata sfaldata e morbida che accentua l’atmosfera misteriosa e onirica della scena. Anche lo schema compositivo del quadro è quello già
collaudato da Cecco Bravo per le opere da cavalletto, ovvero la rappresentazione di figure in un proscenio ristretto, stagliate su fondi mossi ma senza una reale tridimensionalità, suggerita soltanto dai passaggi di colore. Armida ci appare temibile, accompagnata da una schiera di creature infernali da lei evocate (serpenti,
draghi, aquile rapaci) a indicarne lo stato d’animo furioso. Essa è stata infatti abbandonata dall’amato Rinaldo e medita vendetta, come leggiamo nel canto XVI, ottava LXVIII, della Gerusalemme di Tasso: “Giunta a gli alberghi suoi chiamò trecento, con lingua orrenda deità d'Averno. S’empie il ciel d'atre nubi, e in un momento impallidisce il gran pianeta eterno, e soffia e scote i gioghi alpestri il vento. Ecco già sotto i piè mugghiar l’inferno: quanto gira il palagio udresti irati sibili ed urli e fremiti e latrati.” La bellezza della maga, circondata da una veste trasparente che ne rende la piena sensualità, è arricchita dai nastri purpurei tra i capelli e dai gioielli, bagliori di perla che le adornano il collo e l’orecchio. È un incanto delicato quello del volto di Armida in contrasto si direbbe con le sue spaventose passioni e con le creature
demoniache che la accompagnano, i cui occhi allucinati e fiammeggianti sembrano riecheggiare nella spilla circolare che le ferma il mantello blu.
 
Cecco Bravo è stato uno degli artisti più importanti e significativi della prima metà del Seicento fiorentino. Da Baldinucci ([1681-1728], IV, p. 311) si apprende che il tirocinio del pittore avvenne sotto la guida di Giovanni Bilivert, pittore di corte del granduca Cosimo II de’ Medici. L’alunnato presso Bilivert dovette rivelarsi ricco di stimoli, dato che la sua bottega si trovava in alcune stanze della Galleria degli Uffizi, permettendogli così di studiare e copiare direttamente capolavori antichi e moderni. Determinante è stata la
collaborazione con Matteo Rosselli che ottenne alcune prestigiose committenze pittoriche da parte della famiglia ducale offrendo a Montelatici la possibilità di cimentarsi con la tecnica ad affresco, inusuale nella bottega di Bilivert.
 
L’attività autonoma del pittore si registra dal 1624, come si ricava da alcune citazioni del tribunale dell’Accademia del Disegno, nelle quali comincia a essere menzionato come Cecco Bravo. Di tale istituzione divenne accademico nel 1637 e ne rimase membro fino al 1659, poco prima della sua partenza per Innsbruck
presso la corte dell’arciduca Ferdinando Carlo d’Austria e di Anna de’ Medici, conti del Tirolo. Tra le sue opere più famose si ricordano gli affreschi della parete settentrionale nel salone degli Argenti, al piano terreno di palazzo Pitti. Gli affreschi, realizzati in occasione del matrimonio tra Ferdinando II de’ Medici e Vittoria della Rovere, sono stati completati tra 1638-1639 e raffigurano Lorenzo il Magnifico porta la pace e
Lorenzo il Magnifico accoglie Apollo e le Muse. Essi dimostrano una pittura dai cromatismi fluidi e trasparenti derivati da Pietro da Cortona, che aveva da poco completato gli affreschi nella stanza della Stufa sempre a Pitti. Dopo il 1650 la pittura di Montelatici si orientò verso una maggiore inquietudine formale, dominata da tonalità cupe, volta verso la smaterializzazione dello spazio, definito piuttosto da pennellate
sempre più sfumate in corrispondenza dello sfondo.